JOHN DUNCAN

John Duncan: Tra noise, installazioni, onde radio, field recordings, uno dei maestri della sperimentazione degli ultimi vent’anni.

Daniela Cascella, BlowUp (Novembre 2000)

Nel 1980 John Duncan registra il suo intervento ad un programma radio in cui una psicologa dà consigli in diretta agli ascoltatori che telefonano: la sua storia parla di due episodi di violenza su bambini e di indifferenza dell’amministrazione pubblica, a cui aveva assistito lavorando come autista di bus in South Central Los Angeles. “La prima volta”, racconta, “due persone salirono sull’autobus e sembrava trascinassero un sacco pieno di panni sporchi, che misero sotto il sedile. Dopo un po’ capii che era un bambino di sei mesi con gli occhi chiusi dai lividi. Fermai l’autobus e chiamai la polizia. Dopo essere arrivati sul posto mi dissero di non poter fare nulla perché non avevano visto nessuno commettere un crimine. La seconda volta sal” una donna con una bambina di circa 9 anni, che aveva le braccia e le gambe ricoperte di lividi e ferite aperte. Non feci nulla e continuai a guidare. Chiamai la psicologa per dirle quanto mi desse fastidio il fatto che non fossi più capace di reagire”. La registrazione del programma radio fu pubblicata lo stesso anno con il titolo Happy Homes nell’ep Creed. “Volevo fare un tipo di musica che non fosse ovvia… Volevo arrivare ai limiti di quello che ci si aspetta di sentire in un disco”. Già qui si delinea il Duncan dei lavori successivi: determinato ad andare in fondo a qualsiasi esperienza, attratto in modo irrefrenabile verso le sonorità estreme e il tessuto della psiche umana; maestro nell’arte di accostare e distribuire i suoni; crudele nel senso che Artaud dà a questo aggettivo, vale a dire sempre capace di gesti assoluti che portino dentro di sé “tutta la fatalità della vita e le misteriose incidenze dei sogni”, manifestando “appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile”; artista dunque, perché capace di esprimersi al di là dei confini di una singola disciplina e di attingere dalle proprie intuizioni, debolezze, passioni.
All’interno dei suoi progetti Duncan offre infiniti punti di vista e variazioni senza mai concedere, agli altri e soprattutto a se stesso, di cullarsi troppo a lungo in un suono o in uno stato d’animo, sorprendendo in continuazione le aspettative e lasciando sempre il dubbio che qualcosa stia per cambiare, che qualche equilibrio stia per spezzarsi: è un modo di affermare la complessità dell’esistenza, di sottolineare che non è mai possibile rifugiarsi/annullarsi in una certezza, un modo di cercare i limiti per trarne uno slancio, una sfumatura, una ferita. Si prenda ad esempio l’album Seek, uscito nel 1997 per la serie “Mort aux Vaches”. Nella seconda traccia una percussione ossessiva e metallica accoglie tempeste di onde corte, in un contrasto forte di volumi e ritmi. Il cozzare dell’andatura trattenuta di fondo con le percussioni più serrate provoca un effetto di spaesamento che stordisce. Seguono pulsazioni soffocate al limite dell’udibile da cui emerge un sibilo insistente, intrecciato ai sussulti di un battito che muore. E ancora stridori metallici in lontananza, fruscii, respiri senza tregua.

Fonte sonora prediletta da Duncan sono le onde corte, che egli inizia ad usare alla fine degli anni Settanta: “…Le onde corte furono qualcosa di assolutamente nuovo, mi sembravano il tipo di suoni che si sentono nei sogni; iniziai a fare pezzi in cui effettivamente leggevo narrazioni di sogni e a cui accostavo registrazioni di onde corte. Per realizzare uno di questi brani lessi uno dei miei sogni al contrario invertendo poi il nastro, in modo da ottenere un effetto molto straniante. Si trattava di esperimenti molto semplici, una traccia conteneva le onde corte, l’altra la voce.” Le onde corte hanno dunque il valore di interferenze provenienti dall’esterno che mettono in luce pattern psicologici e sonori altrimenti nascosti.
“…In seguito capii di essere influenzato emozionalmente dai suoni delle onde corte. Questo mi riport˜ ai miei studi di pittura, in particolare al mio interesse verso la relazione tra colore e psicologia… Mi interessava molto lo studio della luce e dei colori come frequenze. Esistono dei rapporti tra frequenza e reazione psicologica al colore stesso. Usare le onde corte mi riportò a giocare con questi rapporti, sfruttando però le frequenze sonore. Decisi di usare me stesso come termine di paragone per le reazioni a queste frequenze, ascoltandole per lungo tempo e cercando di rendermi conto di quello che provocavano dentro di me. Le onde corte divennero per me uno strumento ideale, che non si doveva imparare a suonare e che era molto più complesso del sintetizzatore, prescelto da molti in quegli anni. Si rivelavano sempre diverse e impossibili da prevedere. più ascoltavo le onde corte più mi facevo coinvolgere dalla loro giustapposizione, dalla stratificazione di segnali e di gruppi di frequenze. Iniziai a studiare il modo in cui quei suoni si opponevano o si completavano e a vedere cosa avrebbero comportato su di me psicologicamente.”

Sin dagli inizi Duncan decide quindi di usare se stesso come materia prima per i suoi lavori, scelta che nasce dalla necessità di una continua verifica di sé e dal rifiuto di concedersi ai meccanismi di auto-annientamento suscitati da episodi come quelli raccontati in Happy Homes. Punto-limite di tale atteggiamento è Blind Date (1980): dopo aver avuto un rapporto sessuale con un cadavere a Tijuana, Messico, Duncan si sottopone a una vasectomia e ripete poi l’evento in pubblico a Los Angeles trasmettendolo per radio in diretta nazionale. Qui emerge la volontà di mettere a nudo le proprie tensioni, “di mostrare quello che può accadere a chi è stato addestrato a ignorare le proprie emozioni”. L’uso del proprio corpo come punto di conflitto di forze, che trovava un riscontro precedente nell’Azionismo Viennese, era portato a punte estreme da alcuni artisti proprio nella California di quegli anni. (Da citare il sodalizio con Paul McCarthy, performer dall’immaginario inquietante, assieme a cui Duncan aveva condotto tra il 1976 e il 1979 un programma radiofonico, Close Radio, ospitando musicisti e artisti del calibro di Pauline Oliveros e Chris Burden). Nel caso di “Blind Date” il corpo diventa luogo di incontro freddo tra Eros e Thanatos; qui Duncan dichiara il suo disagio, raggiunge l’eccesso per mettere in dubbio i suoi stessi fondamenti.
La registrazione della trasmissione radio di “Blind Date” fu pubblicata nel 1984 sul lato A della cassetta Pleasure-Escape, accompagnata da un libretto con interviste, scritti ed immagini. Il lato B presentava la colonna sonora di “Move Forward”, uno dei primi film realizzati da Duncan in Giappone, dove si era trasferito in seguito a diverse pressioni e problemi connessi a “Blind Date”. Sul retro della copertina di Pleasure-Escape Duncan scrive: “Sono talmente ossessionato dal sesso perché sto scappando da me, dipendo dal sesso per evitare di affrontare quello che so di essere”. Il confronto con il sesso è un altro aspetto della volontà di Duncan di portare alla luce ci˜ che di solito rimane nascosto. In questo senso alcuni suoi lavori possono essere accomunati a quanto aveva fatto Cosey Fanni Tutti a metà degli anni Settanta posando per una serie di riviste porno: “Il lavoro di Cosey nei suoi collage, in cui si metteva di fronte alla macchina fotografica per usare la propria immagine come materia prima mi ha ispirato direttamente ad usare il sesso come strumento di conoscenza.” (Proprio con Chris & Cosey Duncan produce nel 1983 un ep intitolato Kokka.)
In Giappone John Duncan realizza una serie di cinque film porno, The John See Series (1986-87), la cui colonna sonora fu pubblicata successivamente con il nome di The John See Soundtracks (1994). “…Facevo film in Super-8 usando immagini che registravo dalla televisione giapponese. Ad un certo punto sentii di dipendere troppo dalle immagini prodotte dagli altri, mi sembrava troppo facile prendere spezzoni di telegiornali, film e documentari e trovare un modo di dissacrarli Ð se solo avessi potuto usare immagini mie, espressamente commerciali e sovvertirle…” “Mi feci coinvolgere moltissimo da questi film, scrissi le sceneggiature, gli story-board, feci l’attore in ruoli minori, la regia, la colonna sonora…”
“In Giappone decisi di provare a fare un tipo di musica davvero impossibile da ascoltare, rumore puro, che avesse una struttura tale da sembrare di non averne alcuna: è così che nacque RIOT, che fu realizzato prima che la scena noise giapponese si sviluppasse. Alcuni musicisti giapponesi mi hanno detto che “Riot” è stata per loro un’ispirazione importante verso il noise, questo mi rende felice perché è parte di ciò che vorrei ottenere dal mio lavoro: incoraggiare altre persone.” Riot (1984) è in effetti un vero e proprio viaggio ai confini dell’ascolto. Hungry-Last Words-Yoika parte con un incedere ritmico che si ripete per 14 minuti, all’inizio spietato e poi sempre più accattivante, che conduce fino al cuore del disco: qui il dolore diventa gradualmente piacere attraverso la reiterazione delle figure sonore. Intorno si intrecciano in maniera organica, insinuandosi nella mente, percussioni e onde corte, su cui Duncan indugia anestetizzando pian piano l’orecchio e scaraventandolo subito dopo in un soundscape diverso; il ritmo infine rallenta e si intreccia ad un recitato sommesso. Riot è invece il trionfo noise, la saturazione dell’udito che si sviluppa senza tregua in rasoiate di onde corte, percussioni, chitarre distorte.

Eri al corrente di quello che gli altri musicisti giapponesi stavano facendo a quel tempo? Conoscevi Masami Akita/Merzbow?

A quel tempo Masami Akita non faceva noise propriamente detto ma un tipo di cut-up molto simile, anche se più serrato, a quello che in seguito realizzarono gli Etant Données. Gli Hijokaidan facevano spettacoli molto divertenti, presentandosi come una vera e propria rock band sul palco con tutto ciò che questo implica. In una delle loro performance che preferisco la cantante indossa un vestito da sposa, ad un certo punto lo alza e piscia sul palco, gli altri del gruppo nel frattempo corrono avanti e indietro e iniziano a scivolare su questa pozzanghera, compreso Mikawa Toshiji con il suo vestito da impiegato di banca. Per me questa è una fotografia della società giapponese di quegli anni…
Il noise giapponese è il prodotto di una società che è un bombardamento di pubblicità, di luci, di caos senza sosta. Ecco perché quando il noise viene ascoltato in Europa o negli Stati Uniti le persone in un primo momento pensano che sia qualcosa di molto diverso, che l’energia dei musicisti sia incredibile e meravigliosa, poi però quando sentono un cd dopo l’altro iniziano a pensare che siano tutti uguali e non riescono più ad ascoltarli. Il noise ha a che fare con l’immersione nella cultura giapponese contemporanea, con il doversi scontrare con questa cultura giorno dopo giorno. Vivere in questo bombardamento è qualcosa che si può capire solo se ci sei dentro e da questa condizione viene l’estetica noise così come l’estetica di Riot: bombardamento totale, sovraccarico completo. Volevo fare una musica sovraccarica. I Giapponesi hanno anche un modo diverso di percepire l’individuo, il corpo, il confine tra se stessi e gli altri…
In Giappone non c’è privacy. Le stanze sono piccole, tutti gli spazi in cui si vive sono piccoli. Le persone non mostrano le loro emozioni toccandosi: mantengono tutti a distanza perché in effetti per i corpi non esiste distanza, non c’è un posto in cui stare per conto tuo, hai sempre altre persone intorno. Pensi a te stesso in maniera molto “privata” e introversa, quello che indossi e che mostri agli altri non è parte di ciò che sei e senti davvero. In Europa e negli Stati Uniti le persone mostrano se stessi nel modo in cui si vestono, in cui si comportano, nelle cose che fanno. In Giappone non è così. Nonostante la moda, quello che accade davvero in una persona non viene mai mostrato in pubblico e questo mi piace, ho imparato molto da questo atteggiamento. Infatti al mio arrivo in Europa dal Giappone fu difficile per me abituarmi agli abbracci e ai baci nel salutare la gente… Mi sembrava un modo falso di salutare le persone, che non nasceva da un desiderio genuino di toccare chi ti stava di fronte, piuttosto da un rituale convenzionale.”

Chiamare estremo il lavoro di Duncan vuol dire che l’estremo è raggiunto tanto nelle tinte forti quanto nelle sfumature, tanto nell’assalto emozionale di un suono d’impatto quanto nel tocco leggero o composto di toni più sottili. È ‘proprio grazie all’equilibrio dinamico tra queste diverse componenti che l’insieme risulta sempre denso e mai uguale a se stesso: ascoltare un cd di Duncan è come ripetere una formula fuori dal tempo in cui ciascun suono accade ogni volta come se fosse la prima ed assume sempre un senso nuovo. Dark Market Broadcast (1985) è un graffio tracciato da una sorta di tempesta dance che prosegue tra voci ronzanti, coretti e onde corte, inserti di spoken word, convulsioni di ritmi industrial, sospensioni inaspettate di ritmo, il tutto a concludersi con gemiti femminili tra scariche elettrostatiche. Send (1994) è album compatto che si snoda tra accenni melodici e flussi avvolgenti, tra voci sommerse (Sleepers) e ritmi killer (Shatter, track realizzata con Zbigniew Karkowski), fino agli echi di suoni sommessi e lievi, al basso ossessivo e alle aperture dei due brani finali, Crucible e Trespass. La title-track di Incoming (1995) testimonia invece i primi esperimenti di Duncan con l’elaborazione di suoni al computer (grazie all’aiuto di Max Springer) e prelude al successivo The Crackling. È’ tutta elevazione, e poi improvvisa caduta finale. In Flare la voce è imprigionata dalle scosse sonore, Voice Field è un’ondata su un background di percussioni e stridori lontani, Ceremony una devastazione che sembra evocare rituali lontani. Crucible (1998) è stato realizzato in occasione del Festival di Topolò, al confine tra la Slovenia ed il Friuli, regione dove Duncan si è trasferito dalla metà degli anni ’90. Lavoro dai toni particolarmente delicati, è un ricamo di cristallini field-recordings attorno al tema dell’acqua, risolto in modo efficace in una composizione di circa 20 minuti.

“Ogni lavoro ha una vita propria. Quando funziona sembra avere una presenza tutta sua e io non capisco in che modo certi elementi siano entrati a far parte del suono. Ciò non accade perché ho dimenticato le tecniche usate: si tratta di ascoltare qualcosa di diverso per la prima volta senza sapere da dove provenga, senza sapere che c’èra anche prima. Questo è molto importante per capire se un evento, un album, una performance, un’installazione funzionano davvero. In questo sta anche la connessione tra la musica e il resto delle cose che faccio… Io sono parte del processo perché lo metto in azione, ma se funziona davvero sono solo una parte… Sembra che io estragga qualcosa da me che mi dice che mossa fare. Ad un certo punto il lavoro stesso mi dice ‘ecco di cosa c’è bisogno’… Il mio controllo diventa molto poco definito e a tratti superfluo. È’ come se ci fosse un dialogo tra me e il lavoro: a volte è lui a decidere… Sono sempre pronto a prendere il controllo ma anche a lasciarlo se necessario. Questo è utile per capire quando reagire. È’ quello che cerco di fare in tutti i miei lavori, cerco di reagire e di incoraggiare altre persone a fare lo stesso.”
Attingere dentro di sé per poi lasciare che accada qualcosa di cui non abbiamo pieno controllo: parole che sembrano richiamare l’incontro tra causalità esterna e finalità interna descritto da André Breton nel libro “L’amour fou” – ed è un amour fou, un amore folle, quello che lega Duncan a tutti gli aspetti dell’esistenza, una sete di scoperte sempre nuove. Spesso si pone davanti a un ostacolo, cimentandosi in prima persona nel suo superamento ed incoraggiando chi ascolta a fare lo stesso. L’ostacolo può essere di volta in volta racchiuso in una modulazione sonora o in una condizione mentale particolarmente adatta al confronto con se stessi; in molte occasioni Duncan sceglie strutture e comportamenti predeterminati come la scienza, la religione, il sesso o a livello ancora più ampio la cultura, i rapporti interpersonali, la percezione visiva e sonora.

Ti sei mai confrontato con l’idea di religione?

Sono cresciuto in Kansas in un ambiente molto calvinista che reprimeva il sesso… I miei genitori non mi hanno dato nessuna educazione in quel senso… Capii che dovevo guardare altrove per avere informazioni e che era importante essere in grado di fare domande apertamente su qualsiasi argomento: se reprimi qualcosa, questa diventa sempre più pesante e alla fine assume il controllo su di te. più domande poni, più sei libero. La religione quindi divenne ai miei occhi una fonte di ipocrisia che reprimeva gli impulsi, qualcosa da evitare. Oggi penso che sia un modo di spiegare esperienze che non possono essere interpretate in termini di oggetti, di carriera o di istinti materiali, in modo da rendere inutile ogni ulteriore interrogativo.

So che sei un appassionato di Pasolini, puoi dirmi in che modo ti relazioni al suo lavoro? Il film “La Passione secondo Matteo” presenta un’idea particolare di religione, un modo di incoraggiare la conoscenza e la sfida verso se stessi…

In quel film Gesù è un personaggio molto magnetico, una figura forte che si oppone alla religione strutturata, che incoraggia a porsi domande in continuazione e che critica chi non si mette in discussione… Una figura molto dinamica, difficile da affiancare, che non accetta compromessi e che esige azioni estreme… Quello che chiede è di ottenere il più possibile da sé.

Agli antipodi poi c’è un film come “Salò”…

…che è il mio film preferiti in assoluto. Non so se riesco a spiegarlo, c’è qualcosa in questo film che non solo accetta ogni attivitˆ umana che coinvolga la celebrazione del corpo in tutti i suoi aspetti, ma ti sbatte tutto questo in faccia. Le persone nel film mangiano escrementi e frutta con rasoi dentro, una serie di torture sono messe in atto, le donne cantano e coccolano i bambini. Per me “Salò” rispecchia il vuoto della vita materiale; il film è ambientato in una villa, simbolo massimo di agiatezza. Il posto è usato per fare qualsiasi cosa di degradante verso quei bambini, per annientarli del tutto, per distruggere in loro autocoscienza e senso di dignità… È’ uno specchio della gerarchia della società, in cui più cerchi potere, più ti decomponi e provochi sofferenza in persone che non hanno legami con i tuoi desideri e le tue sofferenze e che diventano vittime… In questo modo sono incoraggiati a vendicarsi, entrando a loro volta nel processo, facendo del male a qualcun altro, perpetuando la catena di sofferenze. Ecco come vedo “Salò” e mi piace per il fatto che ti sbatte tutto in faccia scena dopo scena.

Religione, sesso, rapporti di potere: strutture che Duncan esplora per sovvertire e per prendere coscienza di sé, muovendosi negli interstizi delle strutture stesse. Quando decide di visitare l’acceleratore lineare di Stanford per campionare i suoni al suo interno ed usarli in un successivo cd, The Crackling (1996), il confronto con l’idea di scienza è inevitabile. La scienza in questo caso è vista come una forma di religione, poiché ha a che fare con processi incommensurabili rispetto all’esperienza umana eppure parti (dis)integranti della stessa. The Crackling testimonia l’attrazione di Duncan verso un meccanismo che mette in ballo fiducia, senso di sopraffazione, dubbio. L’acceleratore lineare, costruito per la ricerca sulle particelle subnucleari tramite la scissione degli elettroni, è un edificio immenso: un corpo longitudinale di oltre 3 chilometri che si risolve in una camera di collisione cilindrica di pareti spesse circa 20 metri. Qui l’elettrone è obbligato ad un percorso che secondo Duncan rispecchia quello della vita: “isolato, costretto in un sistema che usa la sua stessa energia per forzarlo in un cammino che conduce in maniera sempre più veloce verso un certo tipo di distruzione – verso un punto di cambiamento, di svolta totale e verso l’inizio di un nuovo processo”. L’intero cd è una sfida alla misura umana, un inseguimento del punto di fuga della percezione. I suoni, mai così scarni in altri lavori, disegnano architetture sottili attraverso equilibri e modulazioni che riecheggiano dei contrasti del luogo in cui sono stati raccolti: a tratti le micropulsazioni invitano a perdersi nel dettaglio dell’infinitamente piccolo, a tratti un drone emerge in primo piano a misurare uno spazio immenso e diventa raccoglimento, attesa infinita. Battiti insistenti sono trattenuti a lungo quasi a voler trascendere la capacitˆ di resistenza al suono – in alcuni passaggi sembrano dare voce al vuoto. Scrive Duncan nelle note di copertina: “Esisti in un mondo di gravità e di suono. Sei come la luce, come un mare d’aria. Sei la storia e rendi tutta la storia qualcosa di diverso”. La coscienza di far parte di un processo su cui non si ha controllo non comporta l’annientamento ma la necessità di affermarsi, di assorbire ogni esperienza, di infondere respiro in ogni suono. Lo spazio sterminato dell’acceleratore, proiettato all’interno della psiche umana, apre uno spazio interiore altrettanto vasto e ricco di quesiti.
All’esplorazione di tale spazio Duncan si rivolge attraverso una serie di installazioni ed eventi nel corso degli anni Novanta, a partire dal suo arrivo ad Amsterdam nel 1988. “Amsterdam non avrebbe potuto essere più diversa da Tokyo. Tokyo era come una pentola a pressione, lo stress ti circondava senza scampo. Amsterdam era l’assenza di stress… Incoraggiò in me una calma introspezione.” La trasformazione dello stress in introspezione, l’apertura di uno spazio interno tramite lo sfasamento delle normali coordinate esteriori è testimoniata dall’installazione Stress Chamber, realizzata ad Amsterdam nel 1993. Una persona nuda e bendata viene chiusa in un container ai cui lati è montato un meccanismo di tre motori e tre volani. Una volta acceso, il meccanismo provoca delle vibrazioni studiate in modo che facciano risuonare il container e che siano percepite dal partecipante come un oggetto tangibile che si muove a caso intorno e attraverso il suo corpo. Il doppio cd River in Flames – Klaar, uscito l’anno successivo, travolge in un turbine di blip impazziti, ritmi che rimbalzano, segnali telefonici, suoni che fendono l’aria, rintocchi di campane, onde corte, voci sfasate, urla, spari. “River in Flames” secondo Duncan è “una seduzione. Una lusinga intenzionale”. Uno dei brani di “Klaar” si intitola The Immense Room ed attraverso suoni sospesi, particolarmente aperti e vaporosi, sembra proprio attuare il ribaltamento di uno spazio che da limitato si concentra verso l’interno e diventa immenso. La volontˆ è quella di guardarsi dentro fino all’estremo per raggiungere confini mai prima lambiti. (Per inciso, ricordiamo qui la passione di Duncan per Carlo Gesualdo, madrigalista di fine Cinquecento, il quale voleva che gli esecutori dei suoi brani cantassero le loro parti al buio…) Nell’installazione “Maze” (1995) i partecipanti furono rinchiusi a chiave nudi in una stanza buia e vuota senza sapere quando la porta sarebbe stata aperta di nuovo. Il tentativo di Duncan, anch’egli all’interno della stanza, era di vedere “cosa accade se si rimane soli con la propria mente senza ulteriori distrazioni e senza sapere quando finirà”, di raggiungere l’eccesso che fa tremare la costruzione su cui si fondano i nostri pensieri. Nella scia di Maze si pone Voice Contact (1998-99). “In “Voice Contact” ogni partecipante entra in una stanza completamente buia al cui interno si trova un ambiente sonoro che lo conduce verso il centro e gli rende difficile muoversi poiché non esistono più i consueti punti di riferimento acustici. E’ trasportato dal suono finché ad un certo punto non è più sicuro di dove si trovi. Anch’io sono nella stanza, reagendo ad ogni persona a seconda di quello che sento provenire da loro senza che possa vederli.” L’ultimissimo cd di Duncan, Tap Internal, prosegue lungo la linea di investigazione degli spazi, movendosi tra frequenze bassissime che in due momenti sublimi, interagendo con le alte, creano un effetto sonoro che sembra provenire dalle spalle di chi ascolta. La nuova installazione, The Flocking, consiste in una camera quasi interamente buia al cui interno si ode un coro di bambini con suoni che si infiltrano attraverso il pavimento.

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