JOHN DUNCAN

PHANTOM BROADCAST ­ reperti audio di un’intervista a John Duncan

Massimo Ricci


Quando riascolto il nastro della mia conversazione telefonica con John Duncan e sento le nostre voci a tratti divorate dalle interferenze del mio cellulare, l’ironia di vedere una conversazione avviata parlando delle onde radio che viene sommersa dalle stesse, anziché sconfortarmi, mi spinge alla sfida e decido di lasciare affiorare soltanto le tracce audio superstiti. Spero che John, che da tempo si dedica a captare e manipolare le onde radio dello spettro a onde corte, apprezzi lo sforzo di questo mio montaggio, sorvolando sulla mia inettitudine in fatto di registrazione. Cominciamo dalla radio, dicevo, perché penso sia stato uno strumento importante nella carriera di John Duncan, da quando gestiva con Paul McCarthy la trasmissione Close Radio all’impegno attuale con le trasmissioni via internet di Cross Radio. La radio è una comunità acustica e affettiva, ma è anche un oceano di suoni nascosti, imprevisti, uno spettro di frequenze in cui affondare solitari alla ricerca di trasmissioni fantasma. Dopo più di vent’anni di sperimentazione con i segnali diffusi sulle frequenze a onde corte (un titolo per tutti, Phantom Broadcast, 2002), dopo aver registrato le collisioni di particelle nell’Acceleratore Lineare di Stanford (The Crackling, 1996) e le vibrazioni delle maree (Infrasound ­ Tidal, 2003), Duncan è tra coloro che hanno scavato più in profondità nell’inconscio acustico.

Le onde corte radio sono state una fonte di suono che ho trattato come musica: per me era perfetto perché era musica che non dovevo suonare, non potevo utilizzarle come uno strumento acustico o elettronico. Era diverso ogni giorno perché le onde sono influenzate da flussi cosmici, radiazioni e venti solari: queste tempeste cosmiche hanno un’influenza imprevedibile sui suoni della trasmissione originale. Il caos che si produce a causa di vari fenomeni naturali, e dell’intersecarsi di una frequenza con l’altra, mi ha sempre affascinato in quanto fonte di suono. Quando mi mettevo all’ascolto, dopo un po’ di tempo mi rendevo conto delle reazioni che questi suoni mi provocavano in me. Ho iniziato a comporre musica con questi materiali, basandomi proprio sugli effetti emotivi che queste sequenze avevano su di me. L’interesse che posso avere per un qualsiasi suono, siano onde corte, suoni naturali, voce umana, dipende dalla mia reazione emotiva in quanto ascoltatore: questo cerco nelle mie fonti, e lavoro secondo questa risposta facendo un “cocktail” di emozioni. Per questo preferisco utilizzare questi materiali fuori contesto, come fonti, come suoni “puri”: non m’interessa la loro storia, un potenziale elemento narrativo, mi interessa l’effetto che avranno sull’ascoltatore. Parliamo ancora del suono come fenomeno fisico, di quella zona di basse frequenze e infrasuoni che il nostro orecchio non percepisce, ma che affettano comunque il nostro corpo, anche in modo sconvolgente.

Cosa pensa di un materiale sonoro che può essere utilizzato come arma sonica per disperdere una folla o come elemento compositivo in una performance noise?

Non si tratta di usare basse frequenze o altro per provocare reazioni non mediate nell’ascoltatore. Anche quando inizi ad ascoltare il suono con le ossa, con le viscere, col tuo corpo, che quell’effetto si verifichi o meno, dipende dalla composizione. Quando utilizzo questo tipo di espedienti, non li intendo come un assalto, un’aggressione, è piuttosto un modo di spostare l’attenzione degli ascoltatori da quello che stanno sentendo con le orecchie a quello che stanno provando fisicamente, ma dev’essere un atto cosciente.

Eppure nelle sue performance si ritrova un forte elemento di shock e provocazione, specialmente nelle prime esperienze riservate a un ristretto numero di partecipanti, la situazione sembra essere portata all’estremo per ottenere una reazione altrettanto estrema. Pensa che questi elementi influenzino anche il suo modo di usare il suono?

Non mi interessa provocare il pubblico, ma sedurlo. A volte, se la situazione e l’acustica dl luogo lo permette, posso invitarlo a sentire con le viscere anziché con le orecchie, non so se sempre funziona, ma lo faccio perché funziona per me. Non voglio obbligare qualcuno ad ascoltare in un certo modo, è un approccio fascista, posso solo suggerire dei modi d’ascolto. Non si tratta di una semplice provocazione: voglio vedere se il pubblico mi viene incontro, se si prende la responsabilità, voglio che sia un processo attivo. Anche per questo preferisco suonare nell’oscurità totale, per togliere ogni riferimento e ogni sicurezza allo sguardo. A volte uso il volume, contrasti tra volumi alti e bassi, ci sono molti modi per aumentare l’esperienza dell’ascolto e mi piace giocare con questi parametri. Tutto diventa un grande punto di domanda, anche per me. è una situazione sperimentale dove mettere alla prova effetti che, senza un volume e un’acustica adeguati, potevo solo immaginare. Il gioco con l’acustica della sala è fondamentale, i luoghi migliori sono quelli che permettono ai suoni di rimbalzare: più che una sala da concerto tradizionale, grandi edifici industriali, cattedrali, che sono costruite per essere una grande aula di riverberazione, grandi spazi aperti con mura possenti. Anche la sala da concerto di una nave, a Rostock, completamente circondata dall’acqua, ha dato ottimi risultati.

Che ruolo gioca il caso nella sua performance: esiste un elemento d’improvvisazione?

Sì, specialmente nei concerti questo fa parte del gioco, combinare i suoni che già conosco con quelli che non posso prevedere, mescolarli ogni volta in modo diverso. C’è un elemento d’improvvisazione se vuoi. Non è una posizione di controllo: sono più un operaio, sono anch’io in ascolto. Mi limito a una gestione tecnica, giocando con lo spazio acustico, mentre ascolto quello che stanno producendo le macchine. Sotto questo aspetto un concerto è il momento in cui mi sento più vicino al femminile, in questa condizione posso almeno tentare di capire il femminile, nel senso che sono più aperto a quello che succede, ricettivo, una cosa che non provo così spesso nella mia vita privata: è un lusso, è proprio un lusso.


Le interferenze del cellulare riprendono a fischiarmi nelle orecchie, in questo rumore si perdono altre questioni: le misteriose trasmissioni delle numbers station, la recente reunion della Los Angeles Free Music Society di cui ha fatto parte, l’installazione Dream House e la figura del labirinto, altre domande, che ho fatto o avrei voluto fare a John Duncan. Spero che la memoria labile del nastro abbia conservato almeno l’idea e il piacere di questa chiacchierata.

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