Intervista a John Duncan

— Elisa del Prete, Espoarte

Alla stazione di Bologna mi chiudo le orecchie al frenare del treno in arrivo. Duncan invece si mette in ascolto, gustandosi questo intollerabile rumore. Dopo le performance degli anni Settanta, giunge oggi ad un lavoro più discreto, che impiega soprattutto il suono per indagarne percezioni impercettibili. Costante della sua ricerca rimane l’accanita meditazione verso ciò che ci circonda, che stimola sensi ed emozioni, verso possibilità d’esperienza inattese e inconsapevoli. I suoi concerti lasciano il segno, costruiscono muri di suono al di là di ogni aspettativa, in grado di suscitare un’alternarsi di sensazioni ai limiti della coscienza.

Da dove nasce la tua sperimentazione, quali sono i tuoi maestri?

Beh, già dalla fine dell’Ottocento ci furono le prime indagini sulla luce, sulle sue frequenze in relazione ad un’indagine psicologica che è andata a scoprire le connessioni tra tonalità di colore ed emozioni. Penso agli eventi audio-visivi di Aleksander Skrjabin o al Blaue Reiter, che studiava la natura come forma di astrazione da cui raccogliere impulsi emotivi.

Come realizzi tecnicamente le tue sonorità? Come hai iniziato ad usare, ad esempio, le onde corte?

Ho iniziato negli anni Settanta. Le onde corte sono segnali radio trasmessi nella zona fra la superficie della terra e la ionosfera. I miei suoni preferiti sono le interferenze atmosferiche, homing signals, spy broadcasts, i punti in cui tutti questi segnali si mescolano e distorcono. Ne trovo uno, lo registro, e dopo ne cerco un altro che in qualche modo interagisca col primo, e così via, fino a raggiungere un “mescolamento ondulante”. Delle onde mi affascina la mescolanza di due, tre, quattro segnali nello stesso momento, quando i segnali vengono distorti da agenti atmosferici, dall’attività solare, dalle tempeste.

RIOT (1984)…un tentativo di creare rumore puro?

Sì, questo era l’obiettivo, volevo fare un tipo di musica assolutamente inascoltabile, ma ho fallito totalmente perché, soprattutto riascoltandolo adesso, riconosco come sia invece molto composto, ritmico, chiuso nel tempo, rigido.

Poi l’indagine più recente sulla voce…PALACE of MIND (2001), oppure THE KEENING TOWERS per la Biennale di Göteborg del 2003. Cercavi qualcosa di più umano, più armonico?

Beh, umano sì, armonico, no. Sono affascinato dalla voce, è una delle fonti sonore più complesse e al tempo stesso tra le più primordiali. Tutti gli strumenti tradizionali si basano e derivano dalla voce. Nascono per accompagnarla, per farla durare nel tempo. Recentemente lavoro sulla voce, registro le sue variazioni, fischi, e la modifico finché non diventa inconoscibile in quanto ‘umana’ ma più vicina ad un livello primordiale, al di là delle parole. A quel punto il suono inizia a funzionare in un modo simile ad un immagine Rorschach, dove chi ascolta crea le suoi associazioni e risposte.

Sembra che tu abbia una conoscenza del suono quasi scientifica, cosa ti interessa di esso? Ti senti un musicista?

No. Non sono un musicista. Ho studiato arti visive. Il musicista svolge un mestiere molto noioso. è noioso usare uno strumento, interpretare qualcosa che ha già fatto qualcun altro. Gli strumenti suscitano sentimentalismi, quello che mi interessa invece è imparare ad ascoltare i suoni che apparentemente sembrano conoscibili ma che non lo sono. Allora il suono è in grado di suscitare un’emozione. Credo che la differenza tra un musicista e un artista stia nel livello di comunicazione: il musicista necessita di collaborazione, l’artista ha senso anche in se stesso, è autonomo.  

Oltre alle sperimentazioni sonore usi altri linguaggi…il video, la fotografia, il quadro: mi ha colpito DISTRACTION (2006), un lavoro a parete, un po’ anomalo per te. Mi ha colpito come sei in grado di utilizzare il sangue senza drammaticità, creando anzi un’esperienza estetica.

In realtà non sono ancora del tutto soddisfatto di quel lavoro. Comunque il titolo del lavoro spiega come voglia trattare l’ambivalenza di questo materiale, ciò che è in grado di suscitare…

Sì, disgusto ma anche fascinazione…

Già. Mi interessa molto lavorare sull’ambiguità della realtà. Sono nato in una famiglia calvinista e anche il mio rapporto con l’atto sessuale, ad esempio, che si lega, nel mio lavoro, alla ricerca sul sangue, è stato conflittuale, sono cresciuto nascondendolo. E il nascondere dà ancora più forza al sesso rendendo più formidabile la sua potenza. Pensiamo ad esempio a quanto la clandestinità rinforza la pornografia. Da questa idea è nato SEE (2001) Ho pensato di rifare un film porno con elementi che la gente che solitamente li guarda non si aspetterebbe mai, ho cercato di offrire un altro modo di pensare, vedere, intendere l’erotismo. Ecco perché la donna giapponese prende potere rispetto all’uomo, non è più sottomessa.

Hai nominato il Giappone, molto forte la cultura orientale nel tuo lavoro come nella tua vita. Adesso infatti vivi a Bologna, da circa un anno, ma hai passato sei anni a Tokyo, poi otto ad Amsterdam…Come ci sei arrivato da Los Angeles?

Lasciare Los Angeles significava per me lasciare gli Stati Uniti e ricominciare da capo in un paese in cui non conoscevo la lingua né la cultura, in cui non avrei potevo leggere né capire né comunicare con nessuno.

Perché cercavi questo?

Perché i miei amici più vicini volevano spedirmi in prigione per la mia arte! E quando non sono riusciti a spedirmi in prigione hanno boicottato il mio lavoro, nel senso che mi hanno impedito di esporre il mio lavoro in modo libero, hanno fatto in modo che non potessi più lavorare, né nelle gallerie private, né nelle pubbliche performance. Per cui non volevo più stare dove il mio lavoro non veniva apprezzato né capito e ho deciso di lasciare gli Stati uniti. A Tokyo la situazione fu completamente diversa. La gente mi chiedeva di spiegare nel dettaglio  la ragione per cui facevo quello che facevo. A Tokyo ho trovato un vero supporto al mio lavoro. La cosa affascinante del Giappone era la tendenza  all’auto determinazione, attraverso la loro cultura, penso allo zen ad esempio. Ma non solo. Quello che davvero colpisce del Giappone è la totale mancanza di privacy dell’individuo, che credo sia poi la causa di questa autodeterminazione. Il fatto di non poter trovare via d’uscita dalla confusione di una vita quotidiana in comune, caotica, sempre alla luce, ti porta a ricercarla in te stesso. Per questi motivi era nata in quegli anni un forte ambiente artistico e musicale, il Noise, perché per loro era l’unico modo di esprimersi veramente. Lì è stato facile venire in contatto coi musicisti che vi operavano, erano molto collaborativi, la musica era il oro modo di capirsi. Penso ai High Red Center, al CCCC, a Hino Mayuko.

Se dunque il Giappone ti è servito per sciogliere la rabbia, l’Europa per approfondire la tua indagine sul suono…

Passare da Tokyo ad Amsterdam è stato come fuggire da un piccolo ospedale. Ad Amsterdam respiri un senso di libertà e totale apertura. Nonostante questo penso ad Amsterdam come ad un posto molto molto freddo, specialmente d’inverno, socialmente e fisicamente. In Italia, dopo, ho trovato l’attenzione alla vita, alla salute, al cibo, al gusto, che ad Amsterdam era totalmente assente…il cibo era un’atrocità! Non sanno cucinare!

E Bologna?

Amo Bologna. Mi piace perché è al centro, per questo l’ho scelta. Puoi attraversarla in bici in meno di un’ora e arrivare alla stazione in tre minuti. A Bologna poi ho trovato una realtà musicale molto interessante. Ci sono persone che organizzano concerti nelle proprie case, e c’è una certa attenzione alla musica sperimentale, molti ragazzi che sperimentano suoni e si incontrano per collaborare insieme. Valerio Tricoli, ad esempio, con cui ho realizzato l’ultimo lavoro di Torino.

Bene, veniamo allora a questo ultimo lavoro per Eco e Narciso, il progetto della provincia di Torino che quest’anno ha scelto il linguaggio musicale.

Si chiama THE GARDEN e si tratta di un’installazione audio realizzata in collaborazione con Valerio Tricoli nel complesso della fabbrica derelitta IPCA (Industria Piemontese dei Colorante di Anilina) a Ciriè, vicino Torino. L’ambiente è tra i  più velenosi che ho mai visto. Ogni persona di qui con cui abbiamo parlato ci ha raccontato di almeno una parente chi è morto dopo aver lavorato lì, all’IPCA, quando era in attività fino all’80: cancro al fegato, principalmente. THE GARDEN crea in questa zona enorme, vuota ed inquietante, l’ambiente di un giardino di gioco per i fantasmi: un edificio di quattro piani da dove ciclicamente giungono urla bestiali e gemiti, e un altro da cui si sentono movimenti dai piani alti; si tratta di sei elementi audio basati sulla voce e registrazioni in loco. Entrambi gli edifici non sono accessibili al pubblico e vengono scoperti per caso dall’ascoltatore.

Ecco che ritorna un altro elemento costante della tua ricerca: la memoria, il sogno. Come ti influenza, nella vita e nel lavoro?

Nella vita è un tipo di diagnosi; a volte serva come evidenza personale dell’esistenza di universi paralleli. Nel lavoro funziona come un punto di connessione, un modo di comunicare, tanto di più che le parole usate per descriverlo.

Il tuo lavoro non è facile. Non temi che rimanga troppo enigmatico a volte?

No. Se qualcuno è confuso, la sua confusione è sua: è parte della sua esperienza e, se l’accetta, esaminarla diventa parte del processo.  E’ la sua parte personale nel processo; il lavoro è un catalizzatore. L’artista è tale perché ha sentito il bisogno di svegliarsi e capire, per poi invitare anche gli altri alla condivisione di ciò che ha capito. Per questo il pubblico è parte fondamentale nel processo di comunicazione dell’artista. L’arte è uno strumento per incoraggiare a svegliarsi, ad avere coscienza delle cose. Deve servire a fare un’indagine di cos’è e non è, ad aver coscienza della conoscenza.

Dunque cos’è per te l’arte?

L’arte risiede nella bellezza e la bellezza consiste nel trovare un’esperienza che ti fa capire improvvisamente qualcosa. Più spesso partecipi di questi momenti, più volte vuol dire che hai cercato la bellezza, ovvero hai cercato di capire cos’è la vita, il momento, chi siamo. Credo che ogni artista debba chiedersi cos’è l’arte, perché la bellezza è diversa per ognuno ed ognuno ha la propria risposta rispetto alla realtà delle cose.

Qual è secondo te il modo migliore di comunicare col pubblico…?

Sono interessato a comunicare con individuali. Focalizzo su una persona alla volta.

Che consiglio daresti all’ascoltatore/spettatore che si pone a confronto con un tuo lavoro?

Mantenere una mente aperta. E non solo a confronto con il mio lavoro.

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